reazionari/regressione #2347826-2

Una delle cose che mi pare evidente da tutto quello che scrivo è del senso di nostalgia, rimpianto, rimorso, qualcosa che “se potessi ricostruire il passato con quello che so adesso o cancellarlo del tutto” …

Capito, no?

Invecchiare. Non essere aggiornati, al passo coi tempi, all’altezza, contemporaneo (questo mi ricorda che Benedusi è sparito dal sito “competenze” … mh, interesting).

Penso speso al background comune, al linguaggio, ai riferimenti culturali che sono semplicemente l’acqua in cui si nuota insieme: se non ci nuoto, le mie branchie non la setacciano con le vostre… non c’è recupero, corso, studiare. Si tratta di viverci dentro.

Oggi però uscivo con MD che non ha ancora 30 anni… si va dal kebabbaro, dietro di noi dei 15enni.

I quali iniziano a fare dei discorsi e dell’umorismo cantereccio che si sarebbe potuto fare allegramente in una bettola di vecchi, in caserma 40 anni fa oppure in generale 50 anni fa in giro.

Penso che rispetto a loro non sono indietro affatto. E che questo senso di “con loro non dovrei vergognarmi” possa coinvolgere vecchi, uomini, donne che non vanno avanti, per tranquillizzarsi, circondarsi di regresso e stagnazione, per stare tranquilli e non sentirsi fermi a causa del fatto che gli altri si muovono. Lo sei, ma lo sono anche gli altri: tutto bene.

Li capisco, li capirei.

Vorrei dire che non è sano… ma non è sano per il progresso. Per il singolo è un sollievo, è tanta meno fatica.

Assurdo tutto sommato, per una mentalità che fa del “sacrificio” un valore in sé.

Maschilismo/patriarcato VERO. #1289371

Come, per fortuna, Alessandro Masala “Shy” di Breakin Italy recentemente non manca di ricordare, cose come le desinenze delle parole, lo schwa, il liquid gender ed altre amenità sono infinitamente lontane dai problemi attualmente sul terreno, nel cosiddetto, appunto, “paese reale”. Quello di quando (cit) vai dal macellaio.

Mio padre è vivo. Mia madre è viva. Quello che io vi racconto ORA era vero e vissuto da quando ho coscienza e capacità di osservazione: sono un maschio bianco etero cisgender nato negli anni ’70, loro sono nati negli anni ’30.

Oggi sono vecchi.

Mio padre è semplicemente, mediamente, un prodotto standard del maschilismo tradizionale, non particolarmente conservatore per i tempi, ma entro i margini. Mia madre anche: ma mia madre è stata dentro il mondo che cambiava: le sue amiche avevano fatto scelte diverse; non tutte certo, ma era possibile: era proprio lì che le cose stavano iniziando a cambiare. Non si tratta di victim blaming, ma di corresponsabilità.

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regressione

Mai dimenticare quanto è possibile, ogni giorno, regredire. Mentre dormi sugli allori, quale che ne sia la loro entità (un piccolo pezzo di una fogliolina, ad esempio) i muscoli si atrofizzano, il corpo accumula grasso, la mente risparmia energia, la pigrizia vince sulla voglia di fare, la memoria se ne va, lo sporco si accumula, l’ossidazione aumenta, la corruzione procede. Quando non si fa nulla, succede comunque qualcosa.

Fare qualcosa, a volte, serve solo a restare quella merda che sei. Per non essere ancora più merda. Quello è sempre possibile. Non sai mai quanto sia ancora possibile scavare dopo che credevi di aver toccato il fondo del fare schifo, di valere meno di ieri, meno di nulla. Non che sia obbligatorio valere: non sia merce.

Ma tu lo sai.

Io lo so. Ormai è un ricordo persino questo: il ricordo di quando aprii, in svariate occasioni, quaderni, diari, foglietti, piccoli appunti di ogni genere, sia cartacei che sotto forma di registrazioni musicali rudimentali ma essenziali; quella testa, seppure di uno svogliato e pigro fancazzista pessimo studente, funzionava. Era immersa nell’attività, nell’energia dello scambio, del mirare al più alto forse, ma non con uno spirito di competizione: non è mai stato mio. Lo sento, ma non competo. No, quella testa era la mia testa. Capisco le battute che avevo scritto: erano brillanti. Divertenti, sempre sul nonsense, ma geniali a volte. Piccoli fumetti mal fatti, ma che mi divertono più di qualsiasi cosa io possa generare o, peggio, costruire oggi. Alcune melodie in embrione: mi ispirano tutt’ora. Possono uscire cose. Ho fatto bene a registrarle.

Quella testa aveva 18-20 anni. Non esiste più. Strati e strati di ruggine se la sono mangiata. Funziona ancora, ma gratta tanto, dappertutto. Lenta. Biascica, incespica. Quella testa mi ricorda che regredire è sempre possibile, da qualsiasi grado di precedente bassezza. E io lo faccio ogni giorno. Un passo avanti, faticoso, due indietro, senza nessuno sforzo.

Domani dovrei andare in palestra. Mi dovrei alzare alle 7. Ora mancano 20 minuti all’una. Per fare un buon lavoro (un lavoro utile) dovrei dormire. Ci riuscirò? Se non faccio niente, anche in una cosa così semplice come muovere le parti del mio corpo che ho lasciato ferme per 25 anni, posso regredire. In un attimo. Non facendo nulla.

2016 e nessun backup (.micro)

Passo per bere un caffé e vedo la segretaria del posto in quasi-lacrime ed un “è colpa mia, ho fatto un disastro” che parte a ripetizione. Si sono beccati una delle varie versioni di un virus che “prende in ostaggio” i files. Ripulire un computer non è un grosso problema. Nemmeno reinstallare un gestionale è un grosso problema. Perdere i dati non-backuppati fino a duesecondifa del gestionale è un grosso problema.

La cosa che mi lascia davvero esterrefatto è che nel 2016 esista ancora questo fatto di non sapere cosa vada salvato, in che modo e perché. E che questo non venga fatto in modo paranoico, ossessivo-compulsivo. Il backup deve essere fatto. Non riesco a capacitarmene.  Continue reading →

2013 di merda, addio. 2014 … smetto di contare.

Il 2012 nella mia vita – non so la vostra –  ha dato il via a quella merda che sarebbe poi diventato il 2013. Ne si sentiva forte l’odore, dentro l a paura.
Non era più il solito allarmismo : è stato tutto vero. Quindi, se ben ricordo, ho già sfanculato il 2012, degno erede dei precedenti 2009 e 2006 per come li ho sentiti nel mio bilancio personale.

Il 2013 però ha fatto schifo, tanto schifo: ha vinto su tutti gli anni schifosi, per ora. So che si può sempre far peggio.

Il 2014? … boh. Credo che nel 2014 rivivrò una seconda adolescenza sfigata: della sua esistenza me ne fotterò, cercando di tirare avanti, come fu per capodanni, natali, compleanni … particolari periodi di tempo in cui aspettarsi qualcosa e dai quali venire delusi.

No illusione = no delusione.

Quindi 2014… me ne fotto della tua esistenza. Per me dal 2014 finisce la conta degli anni ed inizia “dopo il 2013” in un unico periodo.

Si, ok, saprò all’incirca in che anno siamo, certo. Ma mentalmente…

E allora adieu fottuto 2013. Ti ho odiato tanto, hai colpito duramente e hai sempre fatto centro. Ma ora muori tu, dopo aver sicuramente lasciato la tua eredità. Ma intanto crepa.

disabituarsi alla bellezza sfacciata

immagini di questo tipo, per capirsi.

roba tipo questa

Ultimamente mi è capitato di avere esperienze professionali (fotografia) con una concentrazione di bellezza con la quale non ero abituato a dialogare più così apertamente e che, mi accorgo, mi ha intimidito.

Non so che dire, non sono più abituato. Mi sento un bambino. Un bambino che non fa pensieri tanto innocenti, ma di sicuro regredito a neofita di una lingua che non parlava più da tanto tempo. E che non crede di poter più parlare da madrelingua.

Aoh, tutta roba perfettamente lecita e in cui la malizia (poca) è ricercata solo per scopi smaccatamente commerciali, di una banalità pazzesca e senza il sexy. Ma quando una è così è così e basta.

Tra l’altro era pure simpatica, fanculovà.

Ovviamente mi torna in mente un incipit di un post di Tilla che parlava della figa, tutto è figa eccetera eccetera; mi sembrava utile ed interessante ma mi richiedeva un impegno che non ci ho messo… dovrò tornare a leggere. Ma non so davvero di cosa io stia parlando in questo momento. Qual’è davvero l’argomento?

Nota per i fotografi: quella linkata è su flickr; ho controllato e la sig.ra Soliani sembra avere attinto a man bassa dagli archivi di mezzo pianeta e avere ricaricato su flickr il tutto.

solitudine con sfiducia: un godimento invidiabile

Ormai sarà la terza volta che mi arriva uno di quei powerpoint ottimistoni sullo stile “test assunzioni: ti chiedono cosa vorresti che dicessero alla tua veglia funebre” – tanto che ormai so la risposta prima di sciropparmi tutto : “cazzo, si muove!”. Ha – grandi risate. Il punto è che in quel momento io probabilmente … stringerei parole troppo gelate per sciogliersi al sole. Ma per i meno raffinati: probabilmente #turpiloquio, tanto, pesante, volgarissimo #turpiloquio.

Il mondo ti dice che sei solo e devi abituarti a percorrere la tua via da solo. E forse ai forti questa cosa non fa grande effetto… tirano un bel respiro, sono un po’ tristi, ma tanto ce la fanno con le loro forze. E io vi invidio, forti, perché siete forti.

Io mi sento una merda ambulante circa ogni 10 minuti, ormai; gli alti e bassi non sono più questione di “ieri e oggi”. E di tanto in tanto cerco di prendere il mio rapporto in maniera più positiva di quanto non sia realistico e opportuno fare, probabilmente. Sono solo, nella realtà. Affettivamente se va bene ho amici. Ma come diceva quello… ho bisogno d’amore perdio, perché sennò sto male!

Ogni gesto di gentilezza che le faccio ora riceve quasi sempre una smorfietta, una condizione per essere accettato, non è gradito perché comunque sarebbe stato meglio in un altro modo… Io non sono perfetto. Sono sommamente imperfetto: un mediocre già tempo fa, ora tendenzialmente in peggioramento. Ma non rivolgere più gentilezze sull’onda del “fanculo cosa te le faccio a fare che tanto non va mai bene, non sono mai, semplicemente, gradite” … non è da me. E’ vero, sulle prime mi verrebbe da dire che se avevi freddo e ti ho preso qualcosa, se non era quella che preferivi ma non ti sei alzata, comunque non è male… non è perfetto ma non è male. E così per ogni piccolo gesto per te.

Perché non è vero che è il pensiero che conta, l’importante non è partecipare – e così via. Lo vedi negli occhi di chi ti sta di fronte: ad un certo punto non sei gradito. E sei ancora meno gradito perché non hai fatto niente di male.

E questo potrebbe essere solo un piagnucolio isolato su un dettaglio. Ma io lo sommo a come sto… e non riesco a superare nulla: non c’è nulla che io riesca a superare adesso… il mio stato mentale è penoso… i sensi di colpa per ogni cosa… le aspettative nei confronti di tanta gente, la mia immobilità verso tutto e tutti … circoli viziosi, malessere, sofferenza e nessun passo verso la soluzione, niente di utile per nessuno… e la relativa tranquillità solo di notte, con il terrore al mattino.

blaaaah.

Aziende in chiusura, quattro gatti e sotto pressione

Vivere la chiusura di un’azienda strutturata in cui non si era tantissimi, ma comunque un buon numero, ognuno con il proprio compito e settore, e specifica competenza diventa davvero dura quando si riduce sempre più il personale e si da per scontato che “qualcuno le cose le farà”. Perché ovviamente non è così. La gente non è competente perché gli dici “da oggi sei competente” … al massimo puoi dire che “gli compete” nel senso che se ne deve occupare… ma non gli conferisci automaticamente la capacità di farlo.

E così succede che prima uno che faceva 4 cose poi ne fa 24 … e ancora ce la fa… pur impazzendo ma ce la fa… ma poi arrivano cose proprio che non sai fare… che nessuno ti ha insegnato e chi le faceva prima era bravo, aveva una conoscenza. Il meccanismo macabro però rischia di trasferirsi dai piani alti a quelli bassi.

I colleghi – in panico – cominciano ad aspettarsi anche loro che qualcuno “faccia le cose”. Ma chi le faceva prima non c’è più. E nessuno sano di mente penserebbe, di fronte ad un supermercato chiuso da un mese di suonare il campanello di fianco e dire “ma scusi… io dovevo comprare… io mica posso fare senza… me la da lei la roba, no?” e se il tizio ti risponde “ma sei fuori di mela?” – che tutto questo sia consentito. Eppure… ognuno vede venir meno la possibilità di completare un processo che si faceva in team… ma mica per parolone: perché – semplicemente – non è vero che tutti fanno tutto. Continue reading →

La #desertificazione del #lavoro

terra brulla

Le foreste pluviali come quelle dell’Amazzonia, quelle famose per la biodiversità e per il fatto che vengono rase al suolo dalla popolazione illusa di recuperare terreno fertile per le coltivazioni, vengono in realtà inaridite e tenderanno alla desertificazione proprio a causa di questi interventi: la loro ricchezza sta sopra il terreno, che di per sé è abbastanza povero, mentre è proprio la foresta, con tutta la vita che c’è sopra, ad essere ricca: probabilmente a conquistare quello spazio e a funzionare ci ha messo una quantità di tempo davvero grande e chissà quanti avvicendamenti e lenti passaggi evolutivi hanno fatto sì che quell’ecosistema funzionasse in modo tale da perpetuarsi in quelle precise condizioni ed in quelle zone. Togliendo la foresta, sotto c’è del terreno che, anche con le sue ceneri, produrrà frutto per pochissimo, per poi andare a catafascio.
Considero la desertificazione del lavoro in termini simili. La delocalizzazione, lo spostare il lavoro in luoghi dove le condizioni di mera sopravvivenza sono accettate come compenso sufficiente al lavoro, mettendo questo in concorrenza che non essendo alla pari dovremmo definire sleale.
Tutto qui? Pensandoci bene, si. Il motivo principale per cui si fa questo è soltamente il margine di profitto e tutta una serie di parametri che costringono alla competizione globale non solo le aziende, ma le popolazioni degli Stati che le ospitano senza che le popolazioni loro sovrane abbiano avuto voce in capitolo. Questo , quindi, avviene per libertà di pochi imprenditori che con le loro azioni portano conseguenze contro milioni di persone. Questi milioni di persone non sono in grado di organizzarsi e decidere come vivere con le risorse a disposizione sul territorio di cui nominalmente sarebbero “sovrani”.
Ma arriviamo alla desertificazione: in Italia (credo ovunque, ma in Italia di sicuro) la delocalizzazione distrugge la competenza, cancella la conoscenza (entrambe assieme ultimamente definite “know how”), elimina l’alta qualità e tutta la cultura legata a questi tre elementi: comparti e settori e il loro indotto, partendo da industrie , passando ai terzisti e coinvolgendo il terziario (avanzato non lo è mai stato, da noi) , cancellando l’esigenza di ricerca e sviluppo, di progresso scientifico o culturale, di interesse e passione, di storia e causando un dilavamento di ogni elemento fertile del territorio umano, lasciando, se si è fortunati, alla sopravvivenza di sussistenza le popolazioni che in 50 anni non abbiano dimenticato come si faccia ad occuparsene. Come se il boom non fosse mai esistito. Continue reading →

Desindacalizzare, precarizzare, terrorizzare: come eliminare il diritto dei dipendenti in 3 semplci mosse.

immagine raffigurante un uomo che vomita sotto la scritta vomito ergo sum

benessere e ottimismo

Applicandosi con costanza e determinazione otterrete il controllo! Trasformate i vostri concittadini in servi obbedienti o che muoiano senza puzzare troppo (che diminuisce la propensione al consumo).

Ecco una interessante sequenza di mosse che un’azienda può fare per desindacalizzare, desertificare di diritti e rendere precaria la situazione di tutti i propri dipendenti se non è tanto solida e naviga in cattive acque:

Fase 1: Con la motivazione “non mi serve più” butta fuori in cassa integrazione + mobilità tutti quelli che vuole (ovviamente chiude rami funzionali precisi: “non mi serve più la produzione, la programmazione e l’ufficio acquisti” “non mi serve più la fatturazione staccata dalla contabilità” “non mi serve più il magazzino” “non mi serve più l’information technology” “non mi serve la progettazione, l’ufficio tecnico, l’ufficio prodotto, il design, e l’R&D” “non mi serve la manutenzione elettrica, quella meccanica, quella generica” “non mi serve la sicurezza, il controllo, gli usceri” … ecc.

Un pezzo alla volta.

Fino a ridurre a meno di 15 dipendenti: fase 2.

Il dipendente (e il suo futuro, quello della sua famiglia) di un’azienda con meno di 15 persone è pressoché privo di diritti, di protezioni, in caso di situazioni difficili: ovviamente non sto a parlare di casi idilliaci con il capo e il dipendente che – intellettualmente onesti – discutono animatamente e con passione ma si rispettano sempre e per sempre, cenano assieme se vogliono (non perché “se non lo fai il capo ti guarda male” , si, ne conosco di posti così e lo stile Google non è tanto differente, ai miei occhi) e nessuno mai in nessun  diverbio metterà in discussione il tuo lavoro e con esso la tua vita.

Parlo di casi normali: ci sono problemi, non si sa più a che santo votarsi e intanto si licenzia, poi si vedrà. Tu che sei licenziato sai bene che non becchi un cazzo: che non pagherai l’affitto o il mutuo casa o auto. Che nulla ti tutelerà per il periodo necessario (che non si sa quanto sia!) … che sei vecchio a 26 anni per lo stesso mercato che ti dice che devi lavorare fino a 75 anni per poterti fermare.

Non hai tutele di alcun tipo, sei fottuto. E io un paese di fottuti non lo vedo tanto forte. Continue reading →