R.I.P. : US

La velocità a cui avremmo dovuto reagire, come umanità, alla rapida conseguenza di una nostra stessa azione, non sarebbe stata poi così rapida. Però bisognava farlo subito. Reagire subito, rallentare, partecipare, dialogare. Successe nel giro di qualche mese, l’esplosione del fenomeno non fu una vera e propria esplosione. Ma la razza umana è capace di reagire immediatamente solo come qualsiasi altro animale. Qualcosa che i nostri sensi percepiscono come repentino va affrontato subito e subito viene affrontato. Qualcosa che invece sarebbe argomento per tutta quella superiorità di cui ci vantammo, invece, viene affrontata con il massimo “risparmio energetico” che la pigrizia incarna.

Ma l’istinto giusto, con le cose veloci, è quello animale. Si agisce presto.

Noi non lo abbiamo fatto.

Svuotando lo scaffale del me stesso morto

Quella insopportabile gioia e l’amore, quanto dolore possono causare poi? Con The Music of the Spheres nelle orecchie che gira da ieri (ieri 10 volte, non concordo con Rolling Stones, del resto ho dei Jeans Skinny e le scarpe da ginnastica bianche e vado inesorabilmente verso i 50, quindi ci sta) ho preso di mira quello scaffale. Lo avete anche voi? Mio padre ce l’ha. Anche il padre di B, mi sembra. Un mobile, uno scaffale, in cui ci sono “quelle cose speciali” o “quelle cosine delicate”, magari un mucchio di cose piccole, qualche chiave che se la perdi, un documento importante, la scatola dell’ultimo cellulare? Non so. Mio padre ci teneva e credo ci tenga in effetti un sacco di piccole cianfrusaglie e un tempo anche dei soldi. Era li che mio fratello glieli ha fottuti lasciandogli credere che si stava rincoglionendo, avvilendolo molto per entrambe le cose. Credo un dolore che non posso comprendere perfettamente.

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happy b

Era il giorno del mio compleanno e volevo morire non esistere un po’ più del solito, almeno per quest’anno, per questo periodo.

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dilettanti della morte

Una piccola delusione. La portinaia si è rivelata essere un po’ cazzara. Nel senso che la buona volontà e la passione dell’età ci sono entrambe. Ed è questo il problema: guardando in giro i polsi con le cicatrici che si vedono in giro credo che pochi abbiano in mente il CRACK che bisogna sentir fare a livello dei polsi quando tagli per morire. Ecco, questo tipo di consapevolezza del da farsi rispetto a tutto l’intero discorso di “voglio morire perché non voglio soffrire, quindi non voglio morire soffrendo” non lascia spazio a “qualsiasi cosa va bene”. Se serve coraggio, abilità, cazzutaggine: non è il metodo giusto. Serve INDOLORE e no-paura, casini, coraggio. Se avevo tanto coraggio restavo qua.

Mi ha proposto (sorrido) l’oleandro, mix di medicinali (difficili da procurare) e alcool. Ma è tutto un po’ “boh”. Alla fine resta sempre il monossido il migliore. E ancora non so dove procurare la bombola. Certo con quella sarei a cavallo.

Ma l’oleandro non è male eh. Bisogna fare un infuso che rallenta talmente tanto il battito del cuore da fermarlo. Ma chi sa come cazzo si fa? Foglia e fiore o solo foglia? Mi sa che eventualmente mi tengo il cell vicino col sistema di dettatura e wordpress così almeno posso testimoniare al mondo come funzia, in stile Seneca.

Però questo mi ricorda che alla voce “morire”, la lista delle cose da predisporre non è OK affatto. Tutte le buste per aiutare a prendersi le cose… ad esempio se mi assicuro in un modo che fa avere i soldi a qualcuno, questo qualcuno deve esserne informato. Devo lascargli/le una busta. Eccetera.

Un mio amico e sua moglie hanno deciso di dare il mio nome al loro nascituro. Che nome del cazzo. Ma se son contenti… certo non penso proprio sia in mio onore. Forse a loro piacerà che una vita esista dopo che una vita avrà smesso di esistere, sempre che io arrivi a commettere suicidio. Ripagare i debiti che devo ripagare non è facile. Ma ce la farò.

deve essere inevitabile farsi del male?

Mary scrisse a Jonny, ad un certo punto. Lo osservava dalla luna. Lo osservava: una sagoma nera che faceva, diceva, raccontava, vagolava. Di tanto in tanto si erano gridati opinioni dal suo giardino alla luna. Talvolta Jonny cercava una corda con cui impiccarsi, ma non era mai quella giusta: troppo dolore, e io soffro già. Lei gli disse ti sento e lui sentiva lei. Non si erano mai visti in faccia. Lei gli aveva guardato dentro direttamente, col microscopio, fino a dentro le più minuscole cellule. Poteva chiedere ai mitocondri delle cellule sudoripare dell’ascella di lui “è vero quel che dice?” e loro avrebbero confermato o smentito. Era tutto scritto, chiaro, come lui voleva essere. Lui si conosceva, non poteva prescindere dal come lei fosse fatta fisicamente. Si conosceva. Sapeva che in astratto le menti e i cuori si possono intrecciare, fondere, compenetrare. Ma siamo umani, lui era umano, si conosceva, conosceva il suo punto più debole dell’essere uomo.

(C) Gianni De Conno per IBBY Italia

Mary prima raccontò, poi offrì il suo dentro. Poi diede tanto da poter essere vista fisicamente, sulla luna. John controllò coi propri occhi. Si volarono attorno a distanza per un po’. Jonny partì: lungo viaggio; meta: Mary. Mary non sapeva come Johnny fosse fatto davvero. Si incontrarono alla locanda della luna, si intrecciarono, si parlarono, si baciarono e fecero di tutto. E poi ancora, e poi altre volte. Poi Mary da Jonny. Il patto era semplice: stiamo bene. Imperativo. E anche un nuovo tempo: contemplativo presente. E il futuro, prossimo, sarebbe stata la volta dopo. Felici, presenti, io per te e tu per me. Sulla luna o nel tuo giardino incasinato. Quando erano l’uno per l’altra erano una cosa sola, bella, serena, felice, come respirare e ricordarsi cosa significa respirare quando ti manca l’aria. Era un rimando di gioia, da te a me, da me a te.

Mary conosceva Johnny dal tempo delle osservazioni dalla luna: sapeva cosa faceva con le donne, sapeva come soffriva, come godeva. Sentiva di non essere identica a quelle. Ma lo amava. Disse: io non ti basto. Lui disse e il suo corpo confermò, perché parlava da solo, che bastava. Mary insisté: so cosa vuoi e io non sono: quindi se ti capiteranno, prendile; ma dimmelo, non nascondermelo. E non dirmi che provi cose per me, belle, che però non provi.

Johnny mai pensò di mentire, né immaginava un motivo sensato per farlo. Invece amava farla felice, amava il suo amore, e che lei fosse felice e che stesse bene era meraviglioso, che avesse smesso di soffrire. L’omissione è menzogna? No, mai pensato. Nascondere è tradire? Certo, può. Se mi autorizzi è tradire? No. Non sono rapporti convenzionali questi. Erano strani: lui rientrato dal giardino, nella capanna di legno viveva con una donna; eppure era chiaro che non solo non c’era nulla da temere ma addirittura era un rapporto da invidiare: ex amanti che si supportavano perché la vita è dura. Mary non era sola, era madre. Una madre soldato, che difendeva il suo sommo bene con fatica e determinazione. Sotto attacco da chi un giorno l’aveva portata via dai problemi e poi gliene aveva causati altri. Sopportava, ed era pronta a contrattaccare, ora che il pericolo non era più per lei sola.

Jonny si chiedeva se Mary si stesse guardando indietro, pensando: sono tutti così. Tutti hanno un mazzo di fiori, ma è filo spinato colorato, io lo so. Sono tutti così. Fanno solo male e io sono stufa di stare male. Jonny era lo stesso prima e dopo, non era cambiato, era sempre lui: per parte sua lui stava bene, e ancora meglio stava quando la vedeva star bene, la sentiva star bene, essere felice, amarlo e amare amarlo.

Improvvisamente, di colpo, lei tornò sull’argomento: non mentirmi. Lui non capiva. Perché? Perché mi dici così? Su cosa? Mary ribadiva: non dirmi cose che non senti. E se vedrai qualcuno dimmelo. E lui ripeteva: no, non ti mento. E no, non andrò con qualcuno se devo dirtelo: mi asterrò, piuttosto.

E i pazzi fantasmi del caos, con le facce da giullari, saltellavano intorno a queste anime, sghignazzando e confondendo i pensieri. Che ancora una volta due persone felici si stavano per schiantare volontariamente su un muro di dolore, dal nulla, per nessun motivo. Quanto erano bravi quelli del caos, vero? Era così facile. Erano sempre portati, questi uomini e queste donne, a non accettare la gioia quando finalmente l’avevano. Dovevano subito guardare dietro, cercare lontano, annusare il vecchio dolore, cercarne di nuovo. Scommisero tra loro, tanto erano sprezzanti della razza umana, godendo del loro dolore, specie se nasceva ribaltando la gioia.

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anti-impulsività (53ma puntata)

Alla fine lei non ha fatto cazzate. Non è andata a farsi picchiare, umiliare. E non era sesso. Era masochismo senza la parte sessuale. Era autodistruttività. Forse.  Continue reading →

fuga per la salvezza, codardìa, caos (51ma puntata)

Cronaca di una parabola di delirio. Il pomeriggio ha preso una piega brutta. Forse uno squilibrio con gli psicofarmaci, forse il tempo grigio per metà giornata. Ma qualcosa prendeva male. A pranzo lei ha chiesto dai dai dai vediamoci pranziamo. Si annoia, penso. Chemmefrega, ok, pranzo in compagnia. Aveva rifatto l’assicurazione, poi sarebbe andata a prendere l’auto. Prossima settimana deve posare, quindi mi premuro di ricordarle alcune cose e osservo che ha una pletora di brufolazzi sulla guancia e lei mi dice che si possono eliminare con la “pulizia del viso” … ma non mi risulta. Solo che non sono un estetista (come non lo è lei del resto) e quindi boh, sentiamo, dico, subito, andiamo da K che lo sa. Ci andiamo. Non era vero e comunque richiede giorni. Non ci stiamo dentro. Hey ma ormai è ora di prendere l’auto mi accompagni? Sono di strada. No problem. Le faccio benza, prende la sua macchinetta, ciao. Giorni fa mi aveva rivelato di aver fatto sesso col suo bisonte in un modo che io adoro, ma la conformazione del cazzo è differente, con lui bla e bla. Sono colpi che io incasso, ma ci metto un po’. Razionalmente si fa presto a ricordarsi che come non si diventa alti così il cazzo che hai ti tieni. Ma per chi non ha autostima la fatica è più grande. E ricordiamoci: non sono un computer, non sono un angelo del signore, sono un essere umano, un discendente dalla scimmia. Ci metto un po’. Ma mi passa. I mille segni che la ragazza che amavo è estremamente – e forse solo – superficiale si fanno sentire sempre più. Io queste cose le adoro, ma non voglio solo quello. E non la disprezzo. Ora verrà, il dunque. Continue reading →

uscire dalla scatola del dolore

AC è stata rifiutata, non lasciata, da uno che le piaceva, che era mattoncino su mattoncino, compresi i mattoncini marci, quello che lei voleva per il cammino della sua vita. Ha fatto 600 km per andare a dirgli “sono tua, prendimi” e lui no. Dopo un anno di tiramolla. Quindi in fin dei conti è un “io lo amo ma lui non mi ama”. Ma anche i Promessi Sposi sono “due si sposano, ma ci sono dei casini”. Quindi… sofferenza. E non era, naturalmente, la prima volta. Dolore. E i conti con l’età (37).

E allora parliamo. Prima che partisse le ho dato l’ipotesi che avesse casini a letto e come affrontarli. Non li aveva. Tornata però i casini erano “non mi vuole. E adesso?”. Quindi sofferenza, non voler chiudere tutto anche se dovresti, ecc ecc, solita roba, sono qui che ci combatto pure io. Dura, durissima. Continue reading →

non possiamo essere tutti ingegneri n.20130707006

Preparatevi: l’ennesimo luddismo da bar. Partiamo da questo: l’unica possibilità per competere in un mercato globale è innovare. Operai specializzati, invenzioni, cultura, eccetera.

Ma una popolazione può essere tutta fatta in questo modo? Quanti dei nostri laureati trovano lavoro? Ok, potreste dirmi che sia il cane che si morde la coda, che è proprio questo il simbolo della non-innovazione, perché in un paese che innova i laureati trovano più posto. Non facciamo ricerca. Ok.

Facciamo finta che ci sia ricerca e che i laureati lavorino. Famo tutti innovazione? Tutti roba nuova ogni giorno e se non fai roba nuova muori, sei fuori, out? Ancora una volta, mi sembra che il mercato lavori in maniera e con dei tempi che sono disumani. Mio padre non ha innovato un cazzo in tutta la sua vita, ma per fare il suo lavoro serviva studio, precisione, pignoleria, conoscenza del settore e delle leggi, tenacia e determinazione, una certa forza di carattere. Ma di base le regole erano quelle e quello che fa serve ancora. Forse alcune delle cose che faceva spesso oggi si potrebbero far fare una sola volta o comunque con delle ripetizioni preimpostate con un drone. Non so quanto costi, non so quanto sia preciso, ma la possibilità esiste.  Continue reading →

La #desertificazione del #lavoro

terra brulla

Le foreste pluviali come quelle dell’Amazzonia, quelle famose per la biodiversità e per il fatto che vengono rase al suolo dalla popolazione illusa di recuperare terreno fertile per le coltivazioni, vengono in realtà inaridite e tenderanno alla desertificazione proprio a causa di questi interventi: la loro ricchezza sta sopra il terreno, che di per sé è abbastanza povero, mentre è proprio la foresta, con tutta la vita che c’è sopra, ad essere ricca: probabilmente a conquistare quello spazio e a funzionare ci ha messo una quantità di tempo davvero grande e chissà quanti avvicendamenti e lenti passaggi evolutivi hanno fatto sì che quell’ecosistema funzionasse in modo tale da perpetuarsi in quelle precise condizioni ed in quelle zone. Togliendo la foresta, sotto c’è del terreno che, anche con le sue ceneri, produrrà frutto per pochissimo, per poi andare a catafascio.
Considero la desertificazione del lavoro in termini simili. La delocalizzazione, lo spostare il lavoro in luoghi dove le condizioni di mera sopravvivenza sono accettate come compenso sufficiente al lavoro, mettendo questo in concorrenza che non essendo alla pari dovremmo definire sleale.
Tutto qui? Pensandoci bene, si. Il motivo principale per cui si fa questo è soltamente il margine di profitto e tutta una serie di parametri che costringono alla competizione globale non solo le aziende, ma le popolazioni degli Stati che le ospitano senza che le popolazioni loro sovrane abbiano avuto voce in capitolo. Questo , quindi, avviene per libertà di pochi imprenditori che con le loro azioni portano conseguenze contro milioni di persone. Questi milioni di persone non sono in grado di organizzarsi e decidere come vivere con le risorse a disposizione sul territorio di cui nominalmente sarebbero “sovrani”.
Ma arriviamo alla desertificazione: in Italia (credo ovunque, ma in Italia di sicuro) la delocalizzazione distrugge la competenza, cancella la conoscenza (entrambe assieme ultimamente definite “know how”), elimina l’alta qualità e tutta la cultura legata a questi tre elementi: comparti e settori e il loro indotto, partendo da industrie , passando ai terzisti e coinvolgendo il terziario (avanzato non lo è mai stato, da noi) , cancellando l’esigenza di ricerca e sviluppo, di progresso scientifico o culturale, di interesse e passione, di storia e causando un dilavamento di ogni elemento fertile del territorio umano, lasciando, se si è fortunati, alla sopravvivenza di sussistenza le popolazioni che in 50 anni non abbiano dimenticato come si faccia ad occuparsene. Come se il boom non fosse mai esistito. Continue reading →