Calmati e muori, ma se ci tieni, vivi

Paura, ansia, caos mentale, iperconcentrazione di stimoli e compiti, nessuna possibilità di rallentare, forse di prendere un respiro. E tutto questo va fatto, per sopravvivere. Non è cacciare nella foresta: è il suo corrispondente moderno.

Afflitti dalla sofferenza non possiamo pensare, mi dico, sembrandomi contemporaneamente di rispondere a me stesso e confutando: dunque rimuovi la sofferenza, la causa della sofferenza e penserai… ma allora anche il tuo desiderio di vivere o non farlo cambierà, rendendo vaneggiamenti gli apparenti esistenzialismi frignoni miei.

Solo se si parla poco e si elide molto. L’intensità della sofferenza è diversa. Tutti, sempre, nei confronti di un dolore acutissimo ne accettiamo la soppresione con anestetici, antidolorifici di qualsiaisi entità, amputazioni, rimozioni della parte.

Verso dolori inferiori invece, culturalmente, pensando, solitamente si considera il dovere di accettare la sopportazione: te lo tieni, ci fai l’abitudine e il callo.

Ecco quindi che sotto una certa soglia, un dolore sordo e costante, sembra dover essere accettato, perché si, perché si deve, perchè è la vita, e via stronzeggiando.

Prendendo un bel respiro, dando il tempo ai compiti da svolgere, alla testa di ragionare su quella o l’altra complicazione, arrivando al fondo del barile e trovando finalmente il tempo di alzare la testa, rimuovendo dunque l’intensità e la concentrazione di pesi sul pollicione, potremo comunque decidere che questa pena, questa fatica, non c’è niente che lo valga. Di per sé molte cose valgono, ma la fatica le supera di gran lunga. La fatica resta, si reitera, permane ed aumenta. Le belle cose finiscono, durano poco, si diradano.

Mi chiama mia sorella perché, preda comprensibile dell’agitazione, si è dovuta costringere a ricorrere a questo, a “disturbarmi” (quando non è certo questo che mi “disturba”, ma abbiamo capito che consideriamo “disturbo” solo ciò che sentiamo ci rende meno in controllo e dobbiamo appoggiarci agli altri, ma magari non quando siamo invadenti e arroganti e davvero disturbiamo gli altri senza porci alcun problema) a causa dello SPID. Una questione pratica, la versione di oggi di “mi si è rotta la serratura”. Eppure lei – lo capisco bene, lo ho vissuto nel 2012 assieme ad altra gente impazzita, per un cambio di gestionale ma in una situazione in cui ti senti in pericolo di vita, per il lavoro, il futuro – ha aspettato giorni anche solo per guardare un’accesso alla pubblica amministrazione per ritirarsi le buste paga a causa di questo spauracchio tecnologico. Per lei invece si tratta di un ostacolo insormontabile. Boomer di nascita (“solo i boomer usano la parola boomer ormai” cit) la tecnologia la spaventa e di rimando ci ragiona in modi suoi. Ma sono tante queste persone. Più di una volta ho pensato a corsi di “accesso alle cose”. Hanno sempre e solo problemi di password, di login, alla fin fine.

E “hanno” forse è ingiusto: ne ho anche io con un certo conto online che ha esagerato davvero.

Ma lei è in stato di prostrazione, ha già depressione e altro casino, paura per il lavoro, cose da fare, sensi di colpa accatastati, eccetera. Sfangarla ogni giorno da sola contro il mondo, sentire di mancare a dare una mano ai miei, o di non fare quelle cose che le hanno chiesto – burocratiche anche queste, relative alla casa – sono tutti pesi. E la tecnologia diventa letteralmente metallo rovente su cui non vuole mettere le mani.

Questo lo risolveremo, e ok, non è davvero di questo che vi parlo.

Ma del caos di doveri e pensieri dolorosi, di stress fisico e psicologico che, una volta rimosso, non necessariamente lascia spazio alla voglia di esistere. Togli l’infiammazione, togli il dolore e vedi comunque l’insensato ed il bilancio. Nonostante ciò, ha senso, proprio per non agire (a meno che non si voglia usarlo consapevolmente come un trampolino) sotto un impulso di fitta di dolore. Lo togli, ci pensi, capisci se vuoi davvero vivere. Il dolore potrebbe essere più sistemico, più intrinsecamente correlato alla indesiderabilità di vivere, lontano dalla spinta biologica di sopravvivere, in una qualità per noi non soddisfacente. Certo, se intanto ti prendono a sprangate in testa, per me, vale la pena impegnarsi a porre fine a quella situazione contingente. Poi, una volta ragionato, potresti decidere che al prossimo che spranga puoi chiedere di farlo con colpi più secchi e decisi, senza opporre resistenza e grato/a dell’aiuto.

Fatti i cazzi tuoi e campa cent’anni #1234872

10 anni fa ho semplicemente detto “basta informatica+persone”. Le persone sono ok. L’informatica è ok. Ma queste due cose insieme non devono più avere a che fare con me, mi distruggono.

Ci casco ancora, invece. Mi sembra che la gente possa essere interessata a capire cosa succeda, cosa sarà il futuro dei loro figli, visto che sono loro che dovranno parlarci. Ma il modo in cui sembra che afferrino il concetto sembra sempre che non abbracci completamente le conseguenze. Preferiscono raccontarti demiocuggino piuttosto che farsi delle domande, osservare la vastità del problema o dell’argomento, pensare alla propria vita in relazione a quell’oggetto, quella tecnica, quella pratica.

Più provo chatGPT e lo metto alla prova, ci lavoro, ci dialogo, più mi sembra chiaro che ogni bambino e ragazzino saprà cosa farci, mentre i loro genitori sbuffano solo all’idea di provare, che c’è la password cheppalle.

Ma sono cazzi loro, no? A me interessa della mia nipotina. Ma con sua madre non potrei fare questo discorso, non potrei dire “hey, facci un giro, dialogaci, interrogala, prendigli le misure e capisci cosa può fare e cosa non può e quali siano le potenzialità visto che verrà corretto ogni 2 settimane”. Ma lei, la nipotina, lei proverà. E i suoi interlocutori non saranno competenti, nemmeno per quel minimo di competenza che si ha facendo una prova. Come farai ad accompagnare tuo figlio nell’uso di quello strumento, che è infinitamente più pieno di conseguenze della calcolatrice di 50 anni fa, del computer di 35 anni fa e di internet di 20 anni fa? È uno strumento meraviglioso, ma ovviamente ci sono relazioni con l’apprendimento che sarebbe opportuno vagliare e farlo assieme ai figli: se non impari a fare le cose non le sai fare, le sa fare questo coso. Se non impari a ragionare e mettere assieme i puntini e li fai mettere assieme a questo coso, senza questo coso sarai un ebete. Un conto è non-memorizzare nozioni, un altro è avere a disposizione non solo la summa delle conoscenze del mondo, ma dei ragionamenti che il mondo ha fatto fino a quel momento, in ogni campo del sapere.

Puoi lavorare ovviamente assieme ad uno che sa le cose, ma ci lavori bene se anche TU sai le cose. Questo uno od una potrebbe essere già da oggi una macchina. Avvalersi dello strumento è fico, ma anche negli scacchi l’accoppiata giocatore-ai è meglio di giocatore da solo e di Ai da sola. Il giocatore non è certo poco preparato.

Mi sembrava giusto cercare di far presente a quanti più genitori ed insegnanti tutto questo ma… ti senti tanto una Cassandra. Così capisco che spesso la cosa migliore è: fatti i cazzi tua, che tanto non solo non ne hai abbastanza per essere decente per te stesso, cosa pensi di poter fare per gli altri? È arroganza, altro che. Tu? Tu pensi di dire a qualcuno qualcosa? Ma chi cazzo te l’ha chiesto. Stai muto e fatti le seghe mentali, come ogni sega, per conto tuo senza rompere i coglioni alla gente.

Il prete mi ha messo la lingua in bocca (1950)

Mio padre è nato nel 1936. Profugo Istriano nella II guerra mondiale, visse molta della sua infanzia, fanciullezza e vita di ragazzo in collegi e strutture comunitarie, ma non in campo profughi, di cui comunque aveva specifica contezza, per i racconti precisi di chi, in collegio con lui, non voleva mai “tornare a casa”, perché tornare a casa significava che l’intimità era data da quattro coperte tirate tra te e gli odori, i rumori e le parole di chiunque altro. Quattro coperte per pareti, tirate con fili da biancheria. Per anni. Chi voleva tornare se quella era la casa? Nessuno. Questo soleva ricordare lui a chiunque tra i suoi compagni si lamentasse della vita disciplinata e rigorosa del collegio: lo era, come l’acqua è bagnata. Ma anche il fango è fango, è qui non c’è, si diceva, mentre lì si.

https://i0.wp.com/www.ierimodelfilzi.it/fotohome.jpg
No credits: non voglio che capiate il luogo: chi sa riconosce.

Parliamo, se ben capisco, del 1950. In uno dei collegi il piano inferiore era dedicato ad ospitare ed istruire i ragazzi, collegio e convitto maschile. Ai piani di sopra, probabile proprietà concessa dalla chiesa, era ospitato il clero, preti. Mio padre, ieri, per la prima volta, mi dice che le informazioni riguardanti argomenti “delicati” per loro (non delicati nel senso di trattati con delicatezza, per carità, tutto era molto brutale e diretto! Ma non se ne parlava, ecco la “delicatezza” … era segreto, era imbarazzante, era vergogna) arrivavano con la brutalità diretta dei bambini: ad un certo punto uno arrivava e diceva a tutti “ma lo sapete che ci sono anche quelli che vanno con gli uomini?”. E lui faceva tanto d’occhi.

Continue reading →

Grazie, prego, di niente?

Grazie!

Di niente!

Di niente!

Di niente!

Ed è così, con non curanza, che affermiamo che ciò che abbiamo fatto … non lo abbiamo fatto, che non esiste, che “è il nulla”, che (non) è niente, non vale niente. Momento dopo momento ciò che facciamo è un nonnulla; non è, invece, un atto gratuito ma di valore? Ti ho dato – e sei in debito? No? Davvero non ti è costato fatica o quantomeno tempo? Davvero eri congelato in un armadio, qualcuno lo ha aperto, hai fatto qualcosa e poi sei tornato a prendere polvere?

O forse invece hai tolto tempo a ciò che facevi, hai distolto il tuo percorso per favorire quello di un altro? E lo hai fatto volentieri, senza fare storie, a prescindere dalla fatica, l’impegno o uso di mezzi, secondo ciò che puoi permetterti nella tua vita?

Forse è meglio dire “prego”. Che sia chiaro a TE, non agli altri, che non era “nulla”.

Dovremmo farlo più spesso, perché il “di nulla” sia davvero quando non è nulla, per poterlo differenziare.

Così come le cose sono “belle” e “bellissime”, ma devono essere eccezionali solo quando sono eccezioni, fuori dal comune.

Campagna per l’uso consapevole della parola.

BHUAHAHAHAHAHHAHHAhahahahahah 😀

Ok, ciao

Oggi nasco come artista (Part I)

Questo articolo, alcune ore fa, era intitolato “DEPRESSIONE DI MERDA”, quando era solo la Prima parte.

Prima parte.

Aspettavo da tempo di fare questo servizio di nudo con lei. Sarebbe stato il decimo: il decimo di nudo, in genere è “una tappa”. Faccio 10 servizi di nudo “come as you are” (con depilazione totale ma no trucchi parrucchiere robe aggiunte correzioni) e da quella dopo, o dalla decima stessa allora chiamo la truccatrice. Oppure trucco e parrucco. Questo con tutte. Non sono ricco, ma soprattutto ritraggo ragazze splendide. Non professioniste. So che il trucco porta tutto ad un livello superiore, ma io preferisco che il livello lo raggiungiamo io-e-te e basta. Tu e quello che sei, o quello che ti faccio diventare o quello che diventi. Ma senza che il photoshop della pelle sia da dare per scontato. Il trucco è un po’ un “regalino”. Costa un botto se non hai un ritorno, un committente.

Lei, nonostante fosse la mia ragazza, non è arrivata a posare nuda 10 volte. Fino ad oggi. Oggi finalmente era la decima. Ha già rimandato due volte a cazzo, perché aveva le prove o perché era stressata per qualcosa. Ok, non voglio modelle sovrappensierio o stressate. Si sta li per giocare, essere fighe, essere “la belezza che diventa immortale”. Quindi ok, si rimanda finché non è ora. A meno che io non mi rompa il cazzo ovviamente. Comunque lei mi ha fatto una dichiarazione “poserò sempre per te” e quindi io aspetto pure. Sempre è anche domani. Ad ogni modo oggi arriva, decido che posso fare uno smokey eyes. Lei è perfetta, magrina, rapata a zero (la testa) e dovrebbe depilarsi a sufficienza. Continue reading →