Mi ritrovo ad essere portatore di un grave morbo: in me convivono due spiriti che sembrerebbero opposti. Tuttavia non lo sono. Di tanto in tanto si guardano strano, ma siccome condividono lo stesso sgabuzzino e si conoscono da tempo, quantomeno non si fraintendono. Quando non capiscono cosa dicono, sono i primi a non capire sé stessi, ad interrogarsi su qualcosa senza rispondere. Ad interrogarsi sul proprio stesso metodo, sul proprio stesso pensiero. A volte hanno la grazia di poter andare avanti e fare un passo un più ed occuparsi di qualcosa.
Questi due spiriti, lati del carattere, voglie, bisogni, robe… avrebbero bisogno di un nome ciascuno. Diciamo che quello più facile da etichettare, per comodità, per capirsi (per questo si usano le parole: non siamo telepatici) è quello “artistico”. Potremmo dire creativo. Diciamo quello più giocherellone, zuzzurrellone, che ha voglia di fare quello che ha voglia di fare. Di cantare, di pitturare di rosso, di saltare nella pozzanghera, di correre forte, di giocare, di studiare una roba perché mi interessa (i dinosauri? ok!) o di leggerla e basta perché mi interessa un po’, stare sul divano a guardare merda, di decidere che posso interessarmi un po’, ma mica impegnarmi tanto, di andare ad una mostra perché sì e non perché so, di studiare filosofia, psicologia, sociologia, miazia, fare casino, di ascoltare Vasco tanto quanto Ani DiFranco o i Dream Theater, Robert Fripp oppure le canzoni dei cartoni animati anni 80-90, oppure insomma capito.
L’altra parte è quella che cerca la Verità e – ridiamo forte – la Giustizia. Questa parte non cazzeggia con le parole. Non ama l’ambiguità buttata lì: se c’è la vuole rilevata e dichiarata ad alta voce e cartellino giallo “aaaambiguitààààà quiiii”. Non ama i “secondo me” usati come fatto, non considera il credere al pari del sapere. E non considera quello che è per quello che non è. Ad esempio che lo stesso sapere è “secondo quello che sappiamo oggi”, ma ricordando anche che il prima esiste. Esiste tutto quello che sappiamo essere falso, che è diverso da “non sappiamo”, pur ammettendo che nello stesso ambito c’è un sacco di roba che non sappiamo e che abbiamo tutti imparato che non possiamo sapere cosa non sappiamo: al massimo riconosciamo che sicuramente c’è altro. E quindi, visto che di lavoro da vare per andare avanti ce n’è parecchio, possiamo smettere di occuparci almeno del dimostrato-errato e andare avanti. Siamo più precisi di ieri, sappiamo un granellino più di ieri. Magari a quel punto scopriamo che possiamo mettere in discussione qualcosa (anche questo è andare avanti, ma in base a qualcosa). La discussione stessa, l’osservazione empirica stessa (alla base di tutto), i metodi, tutto questo, hanno trovato in diversi secoli una evoluzione. Sono cresciuti, maturati, migliorati, sono stati discussi, confermati, confutati, trovati veri o falsi o rimasti dimostrati, indimostrati o indimostrabili. Per tutto questo esiste un metodo. E la base di tutto è – anche questa ha dato prova di sé – il metodo scientifico. Ma in tutto quanto, in ognuna delle discipline, il linguaggio è fondamentale. Bisogna capirsi. E’ necessario, visto che già si cerca qualcosa che non si sa, almeno non fare casino semplicemente a parlarsi. Come se ci mettessimo le braghe di budino per andare a fare una spedizione esplorativa. O ci portassimo il frullino. O meglio: non sapessimo usare gli strumenti che hanno già dato prova di funzionare. Senza per questo smettere di considerarli migliorabili, o che se ne possano inventare degli altri migliori.
Ed ora andiamo nella pratica. Continue reading →