Photodune/Envato fa pulizie d’inverno: dura lex sed lex.

una perfetta foto stock

una perfetta foto stock

Come comunicato QUI ai contributors, Envato chiude agli upload di Photodune, la sezione photo-microstock.

Dicono, sostanzialmente: abbiamo lasciato caricare tantammerda. Ad un certo punto avevamo UNMILIONE di files. E poi abbiamo riguardato e ne avevamo 10, di milioni. Ellamaddonna, dieci? Eh si. E quindi?

E quindi ci sono files che non hanno venduto mai. Ma questo non è il problema: ci sono autori che non hanno mai venduto mai un solo singolo file. E quindi?

E quindi intanto basta caricare: upload non più consentito.

Poi, spero io, butteranno nel cesso lammerda: questo si fa con lammerda. Spero, tanto, di non essere io né i mie files. Se fossi io, non sarebbe troppo male: guadagno si, ma nonè che stia diventando ricco con PhorNoDune: certo, più si aumentano i file e l’attività, più sale anche il percentile di Photodune. Oltre a questo ha un sistema di caricamento talmente fico e facile (per il mio workflow totalmente automatizzato) che mi seccherebbe perdere una fonte di profitto che non mi causa grandi grattacapi in termini operativi (non relativi alla fase di scatto intendo).

Ma tornando a quello che dicono loro:  Continue reading →

negazione con svago multimediale

ignorare la realtà

Quale realtà? Io vedo solo cose fiche!
(C) iStock

Giorni fa la mattina mi hanno dato una notizia terribile che ipoteca il mio futuro. Nel pomeriggio sono andato con amici a sentire una conferenza in zona ed ambienti piacevoli, ho mangiato un gelato alle gelaterie GROM (ve le consiglio) e sentito simpatici modi di guadagnarsi da vivere un granello alla volta ma, interessanti.

Oggi, tra circa 1 ora e mezza dovrò tornare a sentirne altre, di notizie nefaste, ma… a pranzo ho trovato il nuovo CD dei Muse nella buchetta delle lettere… dura poco meno di 1 ora. Quindi divano, stereo, dedizione, ascolto di qualità. Per pensare meno alla realtà dovrò persino aprire un giornale con figure, ché alla mia mente non scappi di dare uno sguardo alla dura realtà.

La #desertificazione del #lavoro

terra brulla

Le foreste pluviali come quelle dell’Amazzonia, quelle famose per la biodiversità e per il fatto che vengono rase al suolo dalla popolazione illusa di recuperare terreno fertile per le coltivazioni, vengono in realtà inaridite e tenderanno alla desertificazione proprio a causa di questi interventi: la loro ricchezza sta sopra il terreno, che di per sé è abbastanza povero, mentre è proprio la foresta, con tutta la vita che c’è sopra, ad essere ricca: probabilmente a conquistare quello spazio e a funzionare ci ha messo una quantità di tempo davvero grande e chissà quanti avvicendamenti e lenti passaggi evolutivi hanno fatto sì che quell’ecosistema funzionasse in modo tale da perpetuarsi in quelle precise condizioni ed in quelle zone. Togliendo la foresta, sotto c’è del terreno che, anche con le sue ceneri, produrrà frutto per pochissimo, per poi andare a catafascio.
Considero la desertificazione del lavoro in termini simili. La delocalizzazione, lo spostare il lavoro in luoghi dove le condizioni di mera sopravvivenza sono accettate come compenso sufficiente al lavoro, mettendo questo in concorrenza che non essendo alla pari dovremmo definire sleale.
Tutto qui? Pensandoci bene, si. Il motivo principale per cui si fa questo è soltamente il margine di profitto e tutta una serie di parametri che costringono alla competizione globale non solo le aziende, ma le popolazioni degli Stati che le ospitano senza che le popolazioni loro sovrane abbiano avuto voce in capitolo. Questo , quindi, avviene per libertà di pochi imprenditori che con le loro azioni portano conseguenze contro milioni di persone. Questi milioni di persone non sono in grado di organizzarsi e decidere come vivere con le risorse a disposizione sul territorio di cui nominalmente sarebbero “sovrani”.
Ma arriviamo alla desertificazione: in Italia (credo ovunque, ma in Italia di sicuro) la delocalizzazione distrugge la competenza, cancella la conoscenza (entrambe assieme ultimamente definite “know how”), elimina l’alta qualità e tutta la cultura legata a questi tre elementi: comparti e settori e il loro indotto, partendo da industrie , passando ai terzisti e coinvolgendo il terziario (avanzato non lo è mai stato, da noi) , cancellando l’esigenza di ricerca e sviluppo, di progresso scientifico o culturale, di interesse e passione, di storia e causando un dilavamento di ogni elemento fertile del territorio umano, lasciando, se si è fortunati, alla sopravvivenza di sussistenza le popolazioni che in 50 anni non abbiano dimenticato come si faccia ad occuparsene. Come se il boom non fosse mai esistito. Continue reading →