non ti do il copyright! (minchiata)

Questa cosa la spiego ad ogni nuova persona che arriva in studio per posare. Credo che tutti debbano saperlo.

Prendete una macchina fotografica in mano. Fatto? Ora siete fotografi. Fate una foto. Fatta? Siete autori! Sulla foto che avete fatto voi AVETE IL DIRITTO D’AUTORE, ovverosia il cosiddetto “copyright”. Il CopyRight è vostro. Se avete fotografato vostra zia, il copyright è vostro, non di vostra zia.

Quindi se vostra zia dicesse “hey! non ti do il diritto d’autore per questa immagine!!!” oppure “guarda che non ti do il copyright!” starebbe dicendo una o l’altra minchiata.

Il diritto d’autore ce l’ha l’autore. L’autore sta dalla parte dell’obiettivo che non cattura immagini. Sta dall’altra.
Il diritto d’autore inizia ad esistere nell’istante in cui avviene lo scatto, è automatico, è intrinseco, non serve chiedere o dichiarare niente a nessuno. Se l’opera fotografata è una “mera riproduzione della realtà” o “di carattere creativo” si discute.
Il diritto d’autore comunque non ce l’ha la persona ritratta, poiché, tranne in caso di autoritratto, non è l’autore.

La persona ritratta ha il diritto all’anonimato, o diritto alla privacy. Questo significa che in luogo PUBBLICO non può opporsi (a parte schermendosi) allo scatto della foto o alla sua registrazione (pellicola, scheda di memoria). Ma è l’unica che ha il diritto di autorizzarne la pubblicazione. Rinuncia a questo diritto in due modi: 1) con il proprio comportamento, ad esempio facendo lo youtuber, andando in TV, diventando una persona di spettacolo o comportandosi in modo tale da risultare nota, anche attraverso la politica od una carica pubblica dello stato 2) attraverso la manifestazione del consenso, che normalmente avviene in forma scritta: questo documento si chiama “liberatoria” o “model release” in inglese.

Non è necessario che il consenso sia manifestato in questo modo: potrebbe essere un piccolo video, potrebbe essere un documento elettronico di provata efficacia (esistono delle app). Ma la forma scritta è la più comune, facile, abbastanza sicura.

Il diritto all’immagine è un po’ diverso. Il diritto allo sfruttamento (vari tipi) dell’immagine è ancora diverso.

Queste sono informazioni “base” senza complicazioni grandi, eccezioni, postille ecc.

Speriamo sia di pubblica utilità.

 

il bisogno è un obbligo (ai vari “ce n’era davvero bisogno?”)

attore

Leggevo un sempre interessante Roberto Cotroneo relativamente alle presentazioni del libri, sempre più spettacolarizzate. La riflessione è condivisibile e, in parte, se non in tutto – nell’ambito del “duri e puri” – io stesso mi sento e la penso così.

Ovverosia ho sempre pensato che alle inaugurazioni non si deve mangiare e bere, alle presentazioni non si chiamano gli amici per riempire la sala ma per cortesia, che non devi basare il successo di ciò che hai fatto su parenti ed amici, che, se possibile, proprio il successo non lo dovresti cercare, se hai prodotto un determinato tipo di opera, con un determinato intento. Ovvio che la dicotomia dell’autore “nessuno mi caga quindi faccio schifo” / “mi cagano in pochi ma è gente che sa” esiste… ti chiedi se lo hai fatto solo per te stesso ma allora ti chiedo io perché rendere pubblico cio che fai… eccetera. Solita roba.

Le mie obiezioni sono due: la prima è sulla divisione “saperi / emozione” la diffusione del sapere non è obbligatoriamente separata dall’emozione. E spesso, visto che si parla del salire in cattedra, quindi di insegnare, non si tiene in considerazione quanta parte di studenti apprende a causa della passione di chi trasmette il sapere: ti emoziona sapere, pensa un po’. Non solo sai, ma ti piace. Non solo conosci, ma ami conoscere. Non solo ragioni e ragioni su basi culturali, ma ne godi, provi piacere, ti stupisce ogni giorno la meraviglia di quello che stai trattando, e non perché sei tu che la tratti, ma perché è roba fica, roba forte e non importa se per gli altri è noiosa. Continue reading →

scolpire il proprio ego, andare contro sé stessi

Osservo mio padre. Un uomo anziano, nato negli anni ’30 del 1900. Ha vissuto, non fatto la guerra. E’ stato un profugo, ha studiato diligentemente per emanciparsi dalla povertà e per diventare uomo come solo chi sia nato un po’ di tempo fa sa che si doveva essere uomini.

L’uomo porta il pane a casa. L’uomo guadagna. L’uomo ha i suoi doveri. L’uomo non deve essere uno spiantato, deve essere un buon partito, deve essere autosufficiente, deve saper fare le cose, risolvere i problemi, non mostra emozioni, debolezze, pianto. Deve. E via dicendo.

Soffermarsi a comprendere quali epoche abbia attraversato un essere umano vivo ancora oggi, nel 2016, richiederebbe attenzione.

Purtroppo io posso riservargli comprensione solo quando non si comporta come molta della sua epoca ha accettato e trovato normale nei confronti non tanto delle donne, ma della “propria” donna. E’ proprio dall’epoca delle donne come mia madre che è colpa anche delle donne stesse se non si sono emancipate, se non hanno approfittato del vento del cambiamento. Lo è tutt’oggi, se vivete in provincia. Osservate quante donne hanno ancora capigliature anni ’80 per rendervi conto quanto determinate cose facciano presa e fatichino a mollare, in provincia. Non ho mai avuto pietà per la non-ribellione di mia madre.

Contemporaneamente però lei è la persona debole, la vittima. Non ha gli strumenti per “rispondere al fuoco” perché la sua vita ha preso, tanti anni fa, questa piega. Tuttavia io non riesco a giustificare nessuno dei due nei confronti della continua tortura inferta a questa convivenza. Quella che però viene maltrattata, psicologicamente, incessantemente, è mia madre. Ormai è piegata da decenni a questa visione e si arrabbia con tutti noi figli quando “non capiamo” che quando ci si sposa, che la vita è questo, che cazzatecazzatecazzate. Se me ne date il tempo sono molto maieutico. E con lei ho sempre avuto il tempo di indagare passo per passo il perché di molte cose. Alcune nei miei confronti (regole) arrivavano spesso al “perché si” e questo mi ha aiutato a comprendere come regolarmi. Altre riguardavano fatti suoi o di convivenza o di storia con mio padre, sua madre, la società.

Le risposte sono arrivate a cose come “la felicità è il minimo possibile di maltrattamenti quotidiani”. Quando scavi così a fondo da vedere che chi ti risponde ritiene questo – normale, allora spesso puoi solo chiedere a tutti di non eccedere. Non puoi chiedere di più.

Ho tentato, più volte negli ultimi 20 anni, di parlare anche con mio padre. Non è facile: di certe cose, dei sentimenti, non si parla. E se non si parla, non si sa come si fa. Alcune cose diventano orgoglio. Altre sono patologie, non ho altro modo di identificarle (non sono un esperto) … o forse si chiamano comportamenti deviati, antisociali. In un vecchio romanzo tutto questo era definito “atavismo”.

Io ho sempre avuto dentro di me qualcosa di sbagliato che vedo con chiarezza ho assorbito da mio padre. Quello che però ho sempre fatto io, non loro, è ri-osservarmi dall’esterno, quanto più mi è possibile. Ho sempre pensato, da quando ne ho memoria, che se io sento qualcosa quando sei tu ad agire, questo accadrà anche nell’altra direzione: come ho agito, dunque, perché tu reagissi? ti ho fatto del male? Ero consapevole? Ero in torto? Ero nella ragione ma tu hai sofferto comunque? Seghe mentali, per molti.

Resta il fatto che se ti giudichi costantemente, per questo motivo, cerchi di scolpire per quanto possibile quello che sei. Qualcosa, senti, se dessi un altro colpo di scalpello, farebbe sgorgare sangue: non si potrebbe scalpellare via: sei tu, per quanto sbagliato. Altri colpi di scalpello sono difficili da dare, ma puoi farlo: sono pezzi di qualcun altro, cose che hai assorbito, che si sono sedimentate… ma delle quali puoi fare a meno, anche se fai fatica a liberartene.

Credo che questo genere di fatica sia totalmente sconosciuto a mio padre. Quando gli viene evidenziato il suo torto lui sente offesa. Si sente attaccato, non in dialogo neutro con qualcuno che contemporaneamente gli vuole bene e gli dice che non si sta comportando bene. Scusarsi è sempre stato impossibile. Ammettere di avere torto anche. Rendersi conto che il suo stesso atteggiamento in situazioni di torto è inaccettabile. Che non accetterebbe mai comportamenti che lui ha, nei suoi confronti.

Correggersi costantemente: una fatica mostruosa per chi conosca l’ingiustizia delle azioni che compie ma che sia nato in un momento in cui questo era ben oltre il tollerabile per un maschio.

Sopportare costantemente: una fatica mostruosa per chi conosca l’ingiustizia delle azioni che subisce ma che sia nato in un momento in cui l’emancipazione era possibile ma che abbia scelto di restare sulla via del maschilismo, a fianco a milioni di altre donne.

consiglio a mamme sole (e papà): assegnate dei compiti precisi

Un consiglio (non richiesto) ai genitori, specialmente ai genitori separati o single: assegnate dei compiti precisi ai vostri figli che rimangono soli: operazioni essenziali, azioni necessarie alla gestione della casa, attività che abbiate precedentemente insegnato loro a svolgere in modo chiaro. Meglio iniziare da piccoli e meglio far capire che sono loro che devono svolgere quella funzione, che serve, che è necessaria, che se la mamma arriva e quella cosa non è fatta farà tanta fatica perché la dovevi fare tu prima … e soprattutto quando (sempre) viene fatta bene, diligentemente o anche normalmente, bisogna far vedere che è stato apprezzato.

immagine raffigurante bambini lavoratori immigrati in america nei primi del 1900

mica così eh!

Non pensate che sia un trattamento da bestiole, retrogrado e reazionario. I ragazzi che quand’erano bambini si sono sentiti parte della “squadra-famiglia” (mi sento schifamericano da solo a dirlo) di solito non crescono a furia di “nonmenefregauncazzo”, “voglio”, “fattelo tu” e di infiniti perché … non intendo certo spingere alla creazione di una massa di minioperai decerebrati acritici: io stesso pensavo e rispondevo nella maniera succitata, ma nei pochi casi in cui fui coinvolto in compiti realmente necessari mi rendevo conto di cosa fosse la fatica degli altri perché ne avevo fatta anche io, di cosa significasse il tempo impiegato perché ne avevo impiegato del mio, di cosa fosse uscire col sole o con la pioggia, di far mancare o meno quel certo risultato. Piccole cose, apparecchiare la tavola, essere sicuri che la lavastoviglie (eh! mica andare in miniera!) è stata riempita bene, fare alcune pulizie della casa, magari far fare una certa cosa ai fratellini più piccoli … e naturalmente mettere in ordine (che palle).

Una piccola parte di “senso del dovere” si forma in questo modo. E di utilità, e anche di “essere in grado di sopravvivere occupandosi personalmente dei propri problemi”. Purtroppo non stiamo lavorando per un mondo migliore in cui queste cose non servano, in cui tutta l’umanità lavori perché nessuno debba più farlo in un prossimo futuro e per dedicarsi a cultura e accrescimento personali mentre delle macchine provvedono al nostro sostentamento. Quindi… il senso del dovere ci serve. Certo ci rende triste come chi deve. Ma lo sappiamo tutti … sad but true, il dovere esiste. Meglio toglierselo dalle scatole agilmente e fornire questa “tecnica” ai nostri figli.

Dovrebbero essere ovvietà.

Sul discorso di Marchionne alla Bocconi

Bocconi, 30 marzo 2012 – Avete forse avuto modo di leggere l’intervento di Sergio Marchionne presso l’università Bocconi. Se non lo avete fatto, fatelo. Potete farlo presso queste fonti (CLICK) ed è importante perché si tratta di quel genere di discorso alla Jobs che molti poi prendono ad esempio come se fosse una verità da santone; meglio dunque conoscerlo. Il discorso è molto bello, non lo metto in dubbio. Ecco cosa scrissi a mio padre nonappena me lo sottopose, dopo aver smesso di risentire dell’effetto-commozione:

Sono belle e sono sicuramente condivisibili, ma come sempre si rivolgono solo ai cosiddetti “maschi-alfa-del-branco” e non al branco intero. Ti sferzano a “darti da fare”, ma le due categorie di persone come possono metterlo in pratica, nella realtà? Certamente non hanno le stesse possibilità e quindi non si può pretendere ed aspettarsi lo stesso comportamento da entrambe le parti.

Immagine raffigurante lavoratori, un po' inquietanteLe uniche parole che si riferivano alle persone comuni sono “…spronare la nostra rete produttiva italiana ad adeguarsi agli standard necessari a competere a livello internazionale e a produrre per…“. Un buon vecchio “taci e sgobba – e di più”.

Nel nostro caso nella sostanza, a mio avviso, significa perdere i diritti che Marchionne, nel discorso, ha identificato come provenienti dal ’68 e “non più adeguati”; ovvero dare la possibilità di trattare le persone come ingranaggi di una macchina, da accelerare, velocizzare, spegnere, accendere, staccarne alcuni pezzi e metterli da parte, riprenderli quando serve, ecc. Certamente, a parole, pensando ad ogni mossa “con responsabilità verso il paese”, certo… E’ anche probabile che tutta questa responsabilità, magari in termini di introiti e gettito fiscale, esista. Ma non siamo tutti ingegneri, tutti inventori, designer, attori, tutti in prima fila a scuola. Magari abbiamo figli che lo saranno, come magari lo furono i nostri genitori, ma noi no. E stiamo mantenendo noi quei figli e il loro benessere. E lo facciamo ora e domani. Continue reading →