Mia madre usava come esclamazione – assurdamente: per evitare il turpiloquio – “scemo … di guerra!”. Assurdo poi se ascolti un podcast come “gabbia di matti” (Storytel) notare come spesso fossero spesso trattati disumanamente i superstiti dei conflitti bellici della prima e seconda guerra mondiale, così definiti e talvolta segregati, internati pur avendo quella che oggi, a fatica, chiameremmo sindrome post traumatica da stress. Noi no, faceva scandalo. Che schifo. Era frutto del peccato, bambini non guardate, eccetera.
Penso a Roberto Mercadini che cerca di fare un po’ spazio ai distinguo sulla disabilità su youtube, sulla parola “demente” o sui comportamenti offensivi verso disabili fisici che non hanno problemi cognitivi.
Penso a quanto dire “mongoloide” fosse normale quando ero piccolo, come nella generazione di poco inferiore alla mia (non ancora millennial?) dire “focomelico” fosse possibile. Su Facebook dare dell’analfabeta funzionale sia la prassi.
Ma anche quanto partire da un credo, da quello che io credo e quindi va bene, possa finire per giudicare deviante in modo oggettivo ciò che non lo è, da una malattia fisica ad una preferenza sessuale, ad una forma si pensiero o ideologia politica: deviante, segregare, nascondere, censurare, allontanare, cospargiti il capo di cenere, riconosci la tua colpa, dillo sporco peccatore che stai peccando. Dillo che non sei normale e dammi la sicurezza che io lo sono, che io sono nel giusto e che il giusto è poco, non ce ne sono tanti, non ci sono differenti possibilità. E per farlo paga con la sofferenza, con la tua vita sofferente, con la vita all’inferno, ma lontano dai miei sensi, che mi fai sentire a disagio e io il disagio non lo devo provare mentre lo impongo a te.