La discriminazione è libertà di scelta

La società che ricorda il consenso, sempre. Ma il mio consenso a trovarti bello, brutto, magro, grasso, alto, profumato, sexy lo posso dare solo io.

La discriminazione permea la relazione più basilare della nostra società e imporre in questo ambito l’inclusività forzata significa matrimoni combinati. Siamo tutti giudicanti, tutti discriminatori. Ci piace quello che ci piace, troviamo bello quello che troviamo bello, vogliamo fare sesso con chi ci attira, stare con chi ci va, frequentare luoghi piacevoli. Non ci sono parole che cambino la realtà di ciò che per noi è quello che è. La retorica dell’accettazione non deve essere spostata di contesto così come l’inclusività. Ciò che conta in un posto non deve discriminare in un altro se non è pertinente. Se sono grasso e brutto ed il mio ruolo lavorativo o nella fruizione di beni e servizi non comporta confronto indispensabile con questi aspetti, questi aspetti non devono essere coinvolti. Ma in tutti gli altri casi, ad esempio la libera espressione, il come io sono è un aspetto coinvolto dai sensi, dalle menti, dai gusti altrui.

Il re è nudo. Siamo obbligati da una forma di coercizione a non dirlo ad alta voce? Allora è sbagliato. Il re ha un problema se non vuole che si affermi la realtà e lo ha ancora di più se questa realtà, affermata, gli causa fastidio. O si veste – quindi non accetta la sua condizione – oppure risponde “si, è vero, io sono così come voi dite”.

Ci sono molti casi in cui la sensibilità altrui può non venire urtata perché non c’è necessità di esprimere un giudizio non richiesto. Ma quando una forma di espressione è “richiesta”? Affermare il vero. Tacere il vero. Quanto sentiamo forte che una delle due cose è sbagliata?

Fare del male, far stare intenzionalmente male, volontariamente, con l’intenzione di nuocere, è una cosa, ma fare un’affermazione che ha tra le altre conseguenze (la semplice affermazione di un fatto è la prima) quella di rattristare, ferire, coloro che sono parte di quella verità, è un’altra cosa.

Se non dico che sei grasso non sarai meno grasso. Se non dico che non mi piaci, non starò comunque con te. Se non dico che hai un’alito di merda, comunque non ti bacerò o vorrò conversare fisicamente con te. Se non dico che sei basso comunque tantissime donne ti schiferanno come lammerda.

Alla base della discriminazione c’è la libertà di scelta. Il contesto di questa “sceglibilità” cambia ed è quindi nell’ambito di questi contesti che ci si deve muovere. Resta, per me, che tra i due diritti, quello di affermare il vero – ossia anche una propria sensazione “per me sei brutto” (lo sei per me, è questione di gusto) – vince in caso di disputa culturale prima, legale poi.

Ma io conto zero. Eppure ecco, mi sono espresso. Senza che nessuno lo chiedesse.

contesto obbligatorio?

Negli ultimi 10 anni la libertà di espressione – quando non apertamente osteggiata con motivazioni di tipo “politically correct” più intransigenti – viene spesso incasellata nella “contestualizzazione”. Cioè “puoi dire qualsiasi cosa, ma dipende dal contesto”. Per me, purtroppo, il contesto è “tra persone non idiote”. Non un luogo, un tipo di luogo, un luogo frequentato da una categoria di persone, od una o più categorie o sottocategorie di persone tranne quella di saper comprendere il limite tra la parola e l’azione, anche laddove la parola sia una incitazione all’azione criminale, cosa perfettamente già definita come illegale. Sarà dunque l’azione criminale e la negoziazione sociale fino alla definizione legale a comandare, non le parole.

Non vorrei, quindi, che gli unici a poter esprimere concetti che tocchino argomenti sensibili (“edgy”) o in modi che lo facciano, finiscano per restare i comici di professione, su un palco, con un cartello acceso “ora sto facendo lo spettacolo” oppure qualcuno autodefinentesi artista con un qualche tipo di esposizione che gli faccia da contenitore per potersi liberamente esprimere.

La libertà di espressione e di parola oggi in Italia e in USA deve avere un contenitore specifico persino per chi pensa che si possa dire tutto di tutto. Limitatamente, posso capirlo. Ma deve essere una piccola, piccolissima parte, secondo me.

Io so quando qualcuno sta usando l’umorismo per ridere e quando per dire – attraverso un meccanismo comico – qualcosa il cui intento è specificamente l’offesa, cioè il messaggio è l’offesa, arrecare danno, fare del male, ingiuriare, dire qualcosa di volutamente sminuente, non dire qualcosa che serve a fare altro, ma con un modo che tocchi una differente sensibilità. È molto, molto diverso.

Credo sia una battaglia in corso che è bene combattere. Più libertà, non di meno.

Eppure io so, con certezza, cosa significa nascondersi dietro ad una forma per dire che non era tua intenzione una sostanza, mentre invece lo è eccome. È sul filo del rasoio, così come può esserlo il rapporto attorno alle relazioni tra i sessi o meglio, che va verso il sesso. Lo stile con cui si esplica una relazione non è codificato. Non possiamo firmare un consenso per svolgere una conversazione, ma possiamo interrompere ciò che sta accadendo. Appena si interrompe il nostro rapporto, che è ciò che genera dolore, il tutto finisce. Quindi non smette di essere possibile ciò che noi facciamo, ma smette di essere possibile il fatto che NOI continuiamo – TRA NOI – a farlo. Questo è il compromesso tra il fattibile e il non fattibile in caso di zone “edgy”, secondo me.

Così come “secondo me” dovrebbe diventare (grazie Ricky Gervais, lo dico da sempre) il mantra di ogni “è offensivo” o “fa male” di chiunque. Se a NESSUNO va che si dica una parola, questa parola sparirà. Ma se tutti sanno che è classificabile come “volgare”, ma la dicono tutti, tanto volgare non è più: la dice il volgo ma la dice molto, la dice il nobile, la dicono uomo e donna, bambini e vecchi? Allora è solo diventato un grado di intensità di una espressione, che al massimo potremmo dire che è “informale”.

Puoi fermarti, chiedere “cosa intendevi” e vedere se sotto una parola, un tono, una espressione del volto, un gesto, un volume, un verso ci sia qualcosa la cui espressione è intenzionalmente insultante, sminuente, esercizio del poter disporre dell’altro ben oltre il possibile per essere frainteso con una sola espressione vivace di sé. Puoi. Invece di impedire tout-court che si dicano delle cose. Anche che si pensino. Ma del resto, per contrastare un pensiero errato, dobbiamo poterne sentire l’espressione, leggerla, vedere chi la esprime, parlarci, lasciare che dia il peggio di sé.

l’armanda

quando ero studente c’era un bar, che ha un nome, ma dicevamo che si andava dalla tipa che lo gestiva. Mi trasmetteva disagio, fastidio, malcelata sopportazione al limite, nei miei confronti. Portamento militare, pulizia in stile austriaco, qualcosa nel terrore della sua dipendente e nel suo apparente servilismo nei suoi confronti sembrava dire di più.

Non avevo notato subito, poi, che stava molto attenta alla gente bene. Dottore! Ingegnere! Avvocato! Maresciallo! Persone importanti, grandi leccate di culo. A me, capellone del cazzo che viene a marinare la scuola, quasi non mi badava. Le avevo detto chiaramente che venivo li per i suoi splendidi caffè aromatizzati (allora non si usava) e che le avevo portato almeno 20 clienti. Sbattercazzo. Mi guardava sempre schifata. Distacco, servizio, lavoro. Me ne sono sbattuto: io volevo quel buon caffè, il caffè dell’armanda. Che era pure sul giornale perché era una donna, perché aveva innovato, perché piaceva. Ho scoperto dopo quanto facile fosse finire sul giornale.

Ecco, ad un certo punto, e neanche tanto tardi, il fastidio è diventato reciproco. Forse entrambi ci lasciavamo di spalle con un “… di merda” sussurrato a denti stretti? Chi lo sa. Non ricordo con esattezza. Io ho sempre distinto il buon prodotto dal resto. Mai detto che siccome uno mi sta sul cazzo non fa bene le cose. Ma specifico bene quali. Ad esempio: è antipatica come la dermatite nel retto, ma il posto è più pulito del dentista e il suo caffè al cocco è meraviglioso. A parte per l’ordinazione non le rivolgerei la parola ma niente, anzi, tutto, da dire sul caffè. E quando ha chiuso, anche se ho pensato “ben le sta, così impara che un bar non è solo prodotto ma anche servizio e che noi non siamo plebe”, chi l’ha sostituita non mi fa la minima voglia di entrare. Tranquilli, regolari, offerta noiosamente irrilevante. Continue reading →

@beppesevergnini : il contesto 35 anni fa era sempre sostantivo (e oggi non si contesta più)

Eccoci qui, per l’angolo del Pedante: io!! (applausi).

Leggevo , a dire il vero, con gioia il volume due-in-uno di Beppe Severgnini “Imperfetto Manuale di Lingue” nonché con interesse e già un mezzo sorriso di goduria cagionato da pregiudizievole simpatia. Mi piaceva quest’aria di leggerezza, proprio lontana dalla pedanteria, anche quella del “boh” a giustificare una violazione di una regola riconosciuta “perché non mi piace, perché suona male”.

Però ho trovato una cosa che a me pare un errore e basta. E siccome a mio giudizio suona più pedante del resto, merita di essere trattata con un po’ di serietà. Non per rompere le palle, ma per non farsele rompere: in fondo chi ci dice che una cosa è sbagliata getta una sfida su cosa sia vero e cosa sia falso: ricordando che il linguaggio è una convenzione comune, ad un certo punto non possiamo dire “e io vi dico cosa significhi davvero” senza aspettarci una piccola verifica. Beppe ci dice che (cito, pag 38) “35 anni fa contesto era una prima persona singolare, indicativo presente (voce del verbo contestare […]) Oggi contesto è un sostantivo. Poco sostanzioso […]” – chiude, con il suo leitmotif della sezione sostantivi.

Dato che poi vedo citare in ambito di “problema e problematiche” la vetustà di chi ascolterebbe prog anni ’70 e simili devo cercare di mettere in ordine la cronologia: io con la storia ho un cattivo rapporto. Partiamo da “problematiche” : lo sento usare all’interno delle aziende dagli stessi loschi individui del quantaltro e del ciaggiorniamo, gli stessi identici della mission, della maiuscola servile del pronome e di tante tante altre schifezze… ma sai dove si è trasferito? In bocca ai ragazzini di 17 anni: usano “problematica / problematiche” al posto di “problema” (la problematica è l’insieme dei problemi relativi ad un argomento) … che ormai, volenti o nolenti, come ci dice lo stesso Severgnini (citando adeguatamente) è sinonimo di difficoltà, intoppo, inghippo. Ma ormai sono i ragazzini che vogliono fare i fighetti a usarla come sinonimo di “problema”: li ho sentiti io in tanti posti, mano in tasca, bicchere, petto in fuori e giacchettina: eh ci sono tante problematiche…

Torniamo a contesto. Ho controllato per non lasciare nulla al caso: il libro originale (non quello del 2 in 1) è del 2007. Quindi in teoria nel 1972 forse esisteva un altro vocabolo per dire “Complesso di circostanze o di fatti che costituiscono e caratterizzano una determinata situazione, nella quale un singolo avvenimento si colloca o dev’essere ricondotto per poterlo intendere, valutare o giustificare” come analogia mutuata dal suo significato specialistico preso dalla letteratura.

Io non ero ancora nato nel ’72, ma chi conosceva gli ELP e i Krimson e parla di problematiche ricordandosi forse di eskimi verdi e ci cioé, mi lascerà andare a sfogliare un dizionario vecchio e controllare. Ho qui tra le mie mani un dizionario enciclopedico Sansoni (non sarà un Devoto Oli ma spero vada bene lo stesso) del 1965 (e non del 1969) che alcuni parenti mi hanno lasciato portar via da una loro soffitta… ci sono anche le figure così capisco anch’io! Controllo subito e lì dentro il sostantivo maschile singolare contesto è presente e si dice che sia il participio passato (sic!) di contessere, che stia per “collegamento di parti” e trovo persino un “non mi è chiaro il contesto” come esempio d’uso in frase. Anche se in effetti – lo ammetto chiaramente – col tempo l’uso figurato, così “poco sostanzioso” per Severgnini, ha preso il sopravvento nell’uso che ne fa la maggioranza delle persone con le quali mi è capitato di avere a che fare indirettamente o direttamente.

Però, non solo esisteva prima (vedi anche l’etimologico) d’oggi e del ’70 , ma oggi “contestare” lo usano in ben pochi (gli stessi che neppure dissentono?), mentre l’uso veloce dell’attuale parola “contesto”, che con un solo sostantivo dice così tante cose, è diffuso: un successo linguistico che abbraccerei con gioia, seguendo il citato Richard Jenkyns, invece di lottare contro di lui.

Perché tutto questo casino? Perchè amo la parola “contesto”: per fare altrettanto bene sarebbero necessarie più parole e non è nemmeno d’importazione… descrive con precisione un concetto complesso … quindi aiuta a riflettere una complessità di pensiero. Proprio quello che deve fare il linguaggio, no?

Poi vado avanti, mi ri-siedo al banco, torno a leggere: a cercare di imparare (magari imparassi la brevità, e chissà quante altre cose) … ma il contesto mi ha toccato, perché mi suonava così male da spingermi ad approfondire.

Grazie per la citazione di Camus (non la conoscevo, non l’ho mai letto, ora sono incuriosito).