quando ero studente c’era un bar, che ha un nome, ma dicevamo che si andava dalla tipa che lo gestiva. Mi trasmetteva disagio, fastidio, malcelata sopportazione al limite, nei miei confronti. Portamento militare, pulizia in stile austriaco, qualcosa nel terrore della sua dipendente e nel suo apparente servilismo nei suoi confronti sembrava dire di più.
Non avevo notato subito, poi, che stava molto attenta alla gente bene. Dottore! Ingegnere! Avvocato! Maresciallo! Persone importanti, grandi leccate di culo. A me, capellone del cazzo che viene a marinare la scuola, quasi non mi badava. Le avevo detto chiaramente che venivo li per i suoi splendidi caffè aromatizzati (allora non si usava) e che le avevo portato almeno 20 clienti. Sbattercazzo. Mi guardava sempre schifata. Distacco, servizio, lavoro. Me ne sono sbattuto: io volevo quel buon caffè, il caffè dell’armanda. Che era pure sul giornale perché era una donna, perché aveva innovato, perché piaceva. Ho scoperto dopo quanto facile fosse finire sul giornale.
Ecco, ad un certo punto, e neanche tanto tardi, il fastidio è diventato reciproco. Forse entrambi ci lasciavamo di spalle con un “… di merda” sussurrato a denti stretti? Chi lo sa. Non ricordo con esattezza. Io ho sempre distinto il buon prodotto dal resto. Mai detto che siccome uno mi sta sul cazzo non fa bene le cose. Ma specifico bene quali. Ad esempio: è antipatica come la dermatite nel retto, ma il posto è più pulito del dentista e il suo caffè al cocco è meraviglioso. A parte per l’ordinazione non le rivolgerei la parola ma niente, anzi, tutto, da dire sul caffè. E quando ha chiuso, anche se ho pensato “ben le sta, così impara che un bar non è solo prodotto ma anche servizio e che noi non siamo plebe”, chi l’ha sostituita non mi fa la minima voglia di entrare. Tranquilli, regolari, offerta noiosamente irrilevante. Continue reading →