Il debito d’infanzia

Leggo come correttore di bozze il racconto che un mio amico sta per mandare ad un concorso. Questa storia la conosco. A spizzichi e bocconi, in un ventennio ed oltre, so che gli accenni sono alla sua vita. Ecco perché lo sto leggendo io e no sua moglie.

Lo dico perché è in quello scritto che vedo citare il “debito d’infanzia”. So cosa intende lui ma parto da questo per parlare del mio e di quello che spero facciano i genitori di tutto il mondo, che non lo sbaglino più.

Ci sono cose molto animalesche, semplici, vitali, che puoi (e che dovresti) fare da bambino, da giovanissimo e da giovane. Poi socialmente diventa difficile. Spesso lo è fisicamente, per motivi estetici oppure muscolari.

Il problema culturale, sociale, però rende questo debito insanabile: non è una cosa che dipende da te. Tu non puoi ringiovanire, non puoi vivere quelle cose in quel modo. Se questo ti segna, certo puoi “fartene una ragione”, ma così come può “farsene una ragione” quella persona che prova ansia patologica: come diceva moon, “la teoria la so tutta”. Quindi puoi ragionarci, ma non fartene una ragione, accettarlo, accontentarti.

Questo ti segna per sempre, pesa tanto nel bilancio della vita. Giocare quando potevi giocare, quando aveva un senso, quando quella gioia, quella costruzione di un ricordo d’abitudine e serenità, di gioia, di avuto, come avevano gli altri, fare sesso o simili esperienze, parlare e conoscere le cose più intime senza mistero, senza cazzate, senza moralismi né di tradizione né di religione… Fare col corpo quello che un corpo giovane fa come un corpo giovane, con le possibilità di un corpo giovane e con quel che è e mai potrà più essere. Bello, riassumendo. Con tutta la discutibilità che volete, con tutta la soggettività che volete, ma chiedete a tutti i vecchi quanto soggettivo sia che un giovane sia bello in quanto giovane, come l’altezza che sarebbe mezza bellezza. Non è nu fatto, non è scienza. Ma dammi 10 centimetri di più, dammi più forza, più vigore, più bellezza “media che intendono tutti” e non credo che la rigetterò: perché ci siamo capiti.

Queste cose le possono governare i genitori e poi in qualche modo lo fa il lavoro. Si tratta del tempo: il tempo che puoi dedicare a una cosa o ad un’altra. Conosco le belle parole che si da al valore di annoiarsi. E le capisco, posso persino approvarle. Ma non quando so che gli altri mi accoglierebbero, non mi rigetterebbero, non quando so che gli altri come me sono assieme, fanno quello che gli altri fanno e che io voglio fare. Non sono e non sono mai stato uno da gruppo. Ma in certe occasioni, in certe fasi della vita volevo stare con gli altri, nel momento in cui gli altri stavano assieme. E invece prima il dovere. Magari volevo solo vedere una cosa in TV. Ma prima il dovere. E poi? E poi niente, la roba era a quell’ora e il videoregistratore non esisteva. E guardarla anni dopo non aveva senso, chisseneincula, era background condiviso, quando mi interessava.

Altre cose certamente non le posso attribuire ai genitori. Essere uno sfigato è sempre stata mia responsabilità in moltissimo. Solo in una cosa, una sola, credo, ricordo il tentativo – un po’ indelicato – di mio fratello per tentare di de-sfigarmi. Ma smise subito, lasciando che facessi io quand’era ora. Per il resto poco, e poi non c’era. La mia sfigatezza, io credo, è da attribuire solo ed esclusuvamente a me, o per quello che sono o per quello che ho scelto.

Ma il debito contratto da bambino non si ripaga, non si può. Come andare a vivere in una città fantasma, morta da anni. Le case sono ancora lì, puoi farlo. Ma non puoi farlo.

stasi usa 1984 libertà

Guardare una serie crime qualsiasi in stile CSI eccetera ti mostra in modo “figo” quanto sia possibile scoprire della gente, spiarla, controllarla, stanarla. Loro sono i buoni, ovvio. Ma la luce è giusta, loro sono fighi e affascinanti. Eleganti. Palazzi a vetri, corridoi ampi, strumentazione nuova e lucente. Tutta roba che io devo fare per lavoro.

Contemporaneamente “Le vite degli altri” che tratta della Stasi e quel periodo, oppure della serie distopica “1983” che si trova ora su Netflix, ti mostra le stesse identiche cose, tecnologie, possibilità, ma usate da un più realistico stato oppressivo, onnipresente, punitivo, onnipotente e con un “partito”. 1984 di Orwell in testa. Le tecnologie e le possibilità sono le stesse. Persino i tipi di autorità coinvolta, in una certa misura, sono gli stessi.

Il controllo delle comunicazioni e la libertà di richiedere password di accesso che c’è in UK non è inferiore a quello di un qualsiasi regime totalitario. Ovviamente si tratta del modo. Però ci si può riflettere. O anche sbattersene. Come dicono in questa serie la gente vuole solo pace, cibo, tranquillità.

Per un attimo ho sbagliato titolo, ma ve lo consiglio comunque, proviene dal periodo in cui potevo ancora guardare un film “vero”: il gusto Degli Altri

Ci vogliono guardare nelle mutande e nel cervello

immagine ricordande l'oppressivo controllo descritto nel romanzo 1984 di Orwell

che bel futuro

Notizia n.1: Negli Usa era ormai pratica comune richiedere le credenziali di accesso (utente e password) di facebook o twitter o dei social network ai dipendenti e pare anche dell’e-mail. A questo almeno alcuni stati hanno iniziato a porre rimedio… vedi notizia qui ( http://punto-informatico.it/3508761/PI/News/password-lavoro-disegno-legge-federale.aspx) ma la cosa che fa accapponare la pelle è Continue reading →

Lettura consigliata: Perché siamo così ipocriti sulla guerra?

immagine che ricorda la violenza dei forti sui deboli

questo siamo

Per l’editore Chiarelettere è uscito il libro di Fabio Mini dal titolo “Perché siamo così ipocriti sulla guerra?“. Lo consiglio. Il curriculum dell’autore non è secondario. La sua autorevolezza non gli viene solo dall’aver prestato servizio “in alto” … ma dalla parte dalla quale non ti aspetteresti di sentir parlare chiaro in questi termini delle motivazioni della guerra, del nostro atteggiamento e soprattutto di chi governa il mondo e i nostri paesi: che questa gestione venga dallo stato oppure dalle multinazioanali.

E’ un Generale a parlarci e a dirci quello che il pezzente al bar sa da sempre, che il populista ha facile gioco ad urlare per il proprio lato politico, e il poeta dissacratore o la satira affermano come un dato certo. Ma che poi, dati alla mano assenti, tacciono quando sentono in faccia l’odore dell’alito del potente che, una volta ogni tanto, raggiungono. Continue reading →